di Elia Banelli
Per interpretare l’immaginario del presente, a volte, è necessario ripartire dal passato, dalle origini. Per esempio nel cinema contemporaneo non si potrebbe valutare un film di Quentin Tarantino senza alludere ai western di Sergio Leone. O meglio, l’uno non esisterebbe senza l’altro. Le contaminazioni sono fluide, permanenti, e si moltiplicano nel tempo. Lo stesso avviene in letteratura.
In questa rubrica abbiamo spesso presentato romanzi contemporanei o di recente pubblicazione. Questa volta mi piacerebbe ricordare un autore “storico” e un libro che hanno, in un certo senso, inaugurato il genere investigativo e il giallo: Arthur Conan Doyle con Uno studio in rosso, la prima indagine di Sherlock Holmes. In realtà il giallo è nato in Italia nel 1929 a seguito della pubblicazione di quattro romanzi che avevano una copertina di cartone rigido su cui spiccavano evocative illustrazioni colorate (lascio a voi intuire quale fosse il colore che spiccasse maggiormente) e che il critico Leonardo Sinisgalli ribattezzò “romanzi gialli”. Un unicum italiano, in grado di racchiudere ciò che i canoni internazionali tradizionalmente dividono in mystery, detective story, hard-boiled, noir, thriller…
Per la precisione, il merito di aver inaugurato il genere “poliziesco” nella storia della letteratura viene attribuito a Edgar Allan Poe con I delitti della Rue Morgue, un racconto pubblicato nel lontano 1841. Ma tornando a noi, non c’è dubbio che Sherlock Holmes incarni nell’immaginario collettivo mondiale la figura classica del detective nudo e crudo, di colui che aggiusta e risolve casi ed enigmi con la sola forza della ragione, della deduzione, attraverso l’utilizzo delle tecniche di indagine basate sul metodo razionale e scientifico. Che poi nella vita reale Conan Doyle fosse tutt’altro che un impavido “scientista” (era un grande cultore dello spiritismo e dei fenomeni paranormali) rientra nelle pieghe oscure e indecifrabili dei tracciati esistenziali di ciascuno di noi.
Uno studio in rosso dunque ci mostra per la prima volta Sherlock Holmes dal punto di vista di John H. Watson, ex medico militare di ritorno dalla guerra in Afghanistan, che in cerca di un alloggio a buon prezzo a Londra, si ritroverà a dividere con lui l’affitto di un appartamento al 221B di Baker Street.
L’indagine ha inizio quando viene rinvenuto il corpo senza vita di un certo Enoch J. Drebber, privo di segni di violenza. Dall’odore acidulo proveniente dalle labbra del morto, Holmes capisce che è stato costretto a ingerire del veleno. Analizzando l’espressione del cadavere, infatti, si esclude l’ipotesi del suicidio. A occuparsi del caso sono ufficialmente due investigatori di Scotland Yard, Lestrade e Gregson, che il nostro detective considera due idioti incapaci. La storia si complica quando viene trovata una fede da donna accanto al cadavere, la parola Rache (in tedesco “vendetta”). I due investigatori di Scotland Yard pensano che si riferisse alle iniziali del nome “Rachel” (Rachele) tracciata con del sangue su un muro e un biglietto con la scritta “J.H è in Europa”. Attraverso rilevamenti, deduzioni e calcoli matematici Holmes redige un’accurata descrizione del probabile assassino, che, a quanto pare, potrebbe commettere un altro omicidio ai danni del segretario di Drebber, il signor Stangerson. Per conoscere il resto della storia, e come e se verrà catturato il vero responsabile, non vi resta che sfogliare le pagine e immergervi tra le strade fangose, “i lampioni lungo la Strand come macchie offuscate di luce diffusa che gettavano un debole alone sul selciato sdruccioloso”, e “file interminabili di fabbricati di mattone, mostruosi tentacoli che la città gettava nella campagna”, di una Londra umida e grigiastra di fine Ottocento.
Tra le tante massime che ricorrono in questa prima storia, mi pare doveroso citare questa, un po’ la summa del pensiero di Sherlock Holmes, non scevra di un pizzico di (deliberato) narcisismo: “La mia mente si ribella all’inerzia. Mi dia dei problemi, mi dia del lavoro, mi dia il crittogramma più astruso o l’analisi più complicata, e allora mi sento a mio agio. Posso fare a meno di stimolazioni artificiali. Ma aborrisco la monotona routine dell’esistenza. Ho un desiderio inestinguibile di esaltazione mentale. Ecco perché ho scelto questa particolare professione, o meglio l’ho creata, poiché sono l’unico al mondo a esercitarla”.
Buona lettura.