Ernest Miller Hemingway

Interprete di una generazione scossa

di Salvatore Scalise

 

Il 2 luglio 1961 Ernest Miller Hemingway metteva fine alla sua vita sparandosi con uno dei suoi fucili da caccia a Ketchum, nell’ Idaho. Per il gigante della letteratura americana il sole non sarebbe sorto mai più. Nato il 21 luglio 1899 a Oak Park, a pochi chilometri da Chicago, ha attraversato il XX secolo non solo come protagonista della letteratura internazionale ma anche vivendo in prima persona avvenimenti come la Prima guerra mondiale, la Guerra civile spagnola, la Seconda guerra mondiale e l’inizio della Guerra Fredda. Per molti, e per molto tempo, Hemingway è rimasto impigliato nella definizione di Gertrude Stein che lo considerava uno degli scrittori di quella “generazione perduta”  dedita a grandi abbuffate di aragoste all’americana e alcool nella Parigi negli anni ’20. Atmosfera che Hemingway impresse nel suo libro Fiesta/Il sole sorge ancora dove, attraverso la storia di Jake Barnes, descrive quella comunità di americani che nell’Europa del primo dopoguerra conducevano uno stile di vita, apparentemente, dissoluto e spensierato. Al di là dei suoi brevi dialoghi, con le descrizioni di situazioni e soprattutto di luoghi che diventeranno mete di pellegrinaggio di numerosi lettori e non, in un sottofondo che si può ritrovare in tutti i suoi libri, Hemingway riesce a trasmettere la fragilità e le paure di quei giovani che portavano ancora dentro le ferite di un mondo uscito da pochi anni dal terrificante olocausto di una guerra in cui milioni di vite erano state sacrificate sull’altare della modernità. Non una generazione perduta, come volle precisare Hemingway anni dopo, ma più semplicemente una generazione “scossa”.  Uomini pervasi da inquietudini e paure per il nuovo secolo che si andava profilando, tendente sempre più ad eccessi di vitalismo e materialismo, portatore di nuove guerre e lutti. È con Addio alle Armi che questo stato d’animo traspare in modo netto: in questo libro egli intreccia la sua storia vera (ufficiale americano della Croce Rossa Americana ferito a Fossalta di Piave nel 1917, e successivamente ricoverato presso l’ospedale della Croce Rossa americana a Milano), con la storia del suo alter ego (il tenente Fredic Henry che si innamora dell’infermiera inglese Catherine Barkley, nella realtà l’infermiera Agnes Von Kurowsky). Nella trama del romanzo si intravedono, ancor di più, quell’inquietudine e quelle ferite dell’anima che non saranno più cancellate. In un libro scritto contro il militarismo e il totalitarismo che andavano affermandosi in quel periodo, Hemingway rivendica con forza il suo modo di pensare e lottare nel mondo. C’è una frase, in particolare, di uno dei protagonisti che può rappresentare la filosofia esistenziale dello scrittore americano ed è quella del chirurgo Rinaldi: «Non troviamo mai niente. Siamo nati con tutto quello che abbiamo e non impariamo mai». Hemingway, quindi, rappresentante di quella umanità scossa e segnata dalla terribile esperienza della Prima guerra mondiale si estranea da quell’idea di cercare un significato del proprio vivere nella Storia o nell’Ideologia e si rifugia nel voler «dare alle proprie azioni un senso più profondo e immediato». Lottare nel mondo e per il mondo senza alcuna consolazione filosofica o ideologica, per sentirsi uomo e vivo semplicemente con quello che si ha nell’animo.

Senso del Coraggio, della Fede, dell’Amicizia, dell’Amore e della Libertà. Questo possiamo ritrovare nei suoi libri con i vari personaggi che rappresentano ciascuno a suo modo questo senso del vivere. Personaggi che ritraggono momenti della vita dello stesso Hemingway. Che si tratti di battute di pesca sulla sua Pilar, o di caccia grossa in Africa, inventare cocktail per gli amici nella sua Finca cubana o alle Key West o Parigi, o semplicemente bere all’Harry’s Bar di Cipriani a Venezia, oppure trovarsi in Spagna a seguire la Guerra civile o una corrida, o seguire l’avanzata americana in Normandia o nelle Ardenne per vedere sconfiggere i nazisti, Mister Papa non fa altro che imporre un senso al suo vivere, nel tentativo di colmare quell’ inquietudine e solitudine che non lo abbondoneranno mai, neanche quando nel 28 ottobre 1954 fu insignito del Premio Nobel per la letteratura con il suo Il vecchio e il mare. Un libro nato e costruito attraverso i racconti dei pescatori cubani e le proprie esperienze di pesca.

Lottare sempre, con coraggio e con onore, per giustificare la propria vita anche se ci sarà un dopo che metterà fine a quanto si è fatto. La più bella definizione di come intendesse la vita Ernest Hemingway è quella di Fernanda Pivano che ha scritto: «Per Hemingway la vita doveva essere affrontata non come un destinato a viverla ma come uno chiamato a interpretarla: uno che essendo soltanto chiamato può essere licenziato da un momento all’altro, in una incertezza dalla quale pareva difendersi creandosi delle strutture interne del tutto solitarie che non chiedevano pietà o aiuto a nessuno». Eppure Mister Papa nella sua vita aiutò molte persone in nome di quei valori fondanti della sua esistenza: la libertà, l’amicizia, l’amore. Cosa rappresentassero questi valori per Hemingway si può comprendere dal comportamento che ebbe nei confronti dell’amico Ezra Pound quando questi venne processato negli Stati Uniti per collaborazionismo con il fascismo. L’amicizia tra i due era nata a Parigi laddove Pound aveva aiutato Hemingway nella stesura di articoli e racconti e nella loro pubblicazione in cambio di lezioni di boxe. Negli anni Trenta Pound si dedicò a studi economici anticapitalisti e sull’usura, avvicinandosi sempre più al fascismo. Alla fine del conflitto mondiale venne rinchiuso per alcune settimane, nel campo di prigionia americano a Metato, vicino Pisa, in una gabbia di ferro all’aperto – che Ezra Pound definì la Gabbia del Gorilla – costantemente controllato a vista giorno e notte. Fu proprio in questo campo americano che Pound riuscì a concludere i Canti Pisani. Successivamente Ezra Pound fu trasferito negli Stati Uniti per essere giudicato per alto tradimento rischiando la pena di morte. Molti intellettuali e conoscenti si mobilitarono per evitare la pena capitale ad uno dei più grandi pensatori di quel secolo, e tra questi Ernest Hemingway testimoniò a favore di Pound, ricordando alla Corte che Pound sicuramente era pazzo per tutto quello che aveva fatto per molti intellettuali americani nella Parigi degli anni ’20 quando «prestava loro dei soldi, vendeva i loro quadri, organizzava i loro concerti, consacrava loro articoli. E per finire, solo alcuni di loro rinunciavano a pugnalarlo alle spalle alla prima occasione. E’ pazzo questo. Certo che è pazzo…almeno dal 1933». Dopo aver scontato tredici anni di internamento nel manicomio di Saint Elisabeth Hospital, Ezra Pound ritornò in Italia, anche grazie all’aiuto economico di Hemingway. In una delle tante confidenze fatte alla Pivano, Hemingway spiegò che a Ezra Pound non «perdonava di essere diventato fascista, ma che se lo avessero impiccato si sarebbe fatto impiccare con lui, in una conferma insieme del suo antifascismo e della sua devozione all’antico maestro».

La generosità di Hemingway, il suo altruismo, il suo modo di vivere per molti detrattori non era nient’altro che l’atteggiamento di un qualunquista, di uno spaccone dedito esclusivamente al machismo, ubriacone, strafottente. Queste critiche non intaccarono l’ottimismo dello scrittore americano che contrastava le critiche con bonarietà fintanto che la sua carica vitale e il desiderio di scrivere pian piano andarono a scemare. Nella prefazione de I quarantanove racconti  Hemingway scrive «Andando dove dovete andare, vedendo quel che vi tocca vedere, lo strumento che usate per scrivere si rovina e si smussa. Ma preferisco che sia smussato e dovergli ridare forma e affilarlo di nuovo sulla mola, sapendo di avere qualcosa da scrivere, anziché averlo lucido e brillante e non aver niente da dire […]». Negli ultimi anni di vita Hemingway non riuscì più ad affilare il suo strumento per scrivere. Il declino che sentiva avanzare lo descrive in quello che è forse il suo più bel romanzo, Di là dal fiume tra gli alberi, dato in stampa nel 1950, un romanzo d’addio come ha scritto Fernanda Pivano «un romanzo di presentimenti, di disperata critica e autodifesa».

Finché le malattie e le ossessioni che lo tormentavano – come quelle di essere pedinato dall’ F.B.I. per i suoi rapporti con i castristi cubani, e la disperazione per gli elettroshock a cui veniva sottoposto nella clinica St. Mary a Rochester – lo portarono a quel gesto estremo; gesto che ripeteva quello già compiuto dal padre, presente nel suo codice di vivere, avendo egli sempre considerato l’onore come il valore più importante per un uomo. Non è un caso che avesse scritto che «l’uomo può essere distrutto, ma non vinto».

Ernest Hemingway fu seppellito accanto a Taylor Williams detto Beartracks, colui che gli aveva insegnato la caccia agli orsi in gioventù, gli anni più belli della vita per Mister Papa.

Una vita scandagliata da numerosi scritti e pubblicazioni, nel tentativo di descrivere un personaggio sicuramente complesso e controverso. Forse è nelle poche strofe e nella melodia struggente di Paolo Conte, con la sua Hemingway, che viene immortalata nel migliore dei modi la figura dello scrittore americano; una canzone in cui il cantautore astigiano evoca il fantasma di Ernest in una notte veneziana «oltre la dolcezza dell’Harry’s Bar e le tenerezze di Zanzibar e le illusioni Timbuct», domandandosi cosa ci possa essere «oltre quella strada zitta che vola via», oltre quello che noi possiamo conoscere, e chiede: «Et alors, Monsieur Hemingway, ça va? Et alors, ça va mieux?». Noi speriamo di sì.

 

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