Storia di un matrimonio (Baumbach, 2019)

di Maria Antonia Danieli

 

Storia di un matrimonio (Baumbach, 2019)

 

«È difficile da spiegare. Non è semplice come non essere più innamorati». Queste sono le parole pronunciate da Nicole, una straordinaria Scarlett Johansson, quando le viene chiesto dal suo avvocato, l’altrettanto brava Laura Dern, di raccontarle quando il suo matrimonio ha iniziato a non funzionare più. Storia di un matrimonio, scritto e diretto da Noah Baumbach, infatti, si trasforma nella fine di questo sancendo l’inizio di un divorzio.

Nicole e Charlie, interpretato da un Adam Driver degno di nota, sono sposati e vivono a New York con il loro unico figlio, Henry. Lei, attrice famosa per essere apparsa da ragazza in una commedia di successo, ha sposato lui quando era ancora un anonimo regista teatrale e hanno iniziato una carriera lavorativa e una vita insieme: lui come regista e lei come la sua musa. L’equilibrio iniziale è scandito dalle parole dei protagonisti, i quali elencano ciò che amano del partner  mentre sullo schermo vediamo le immagini del loro passato personale: la storia del loro matrimonio appunto. Ben presto però scopriamo che i monologhi pronunciati non sono altro che un esercizio assegnato durante una seduta di terapia di coppia e sono destinati solamente allo spettatore. La situazione si complica ulteriormente quando Nicole accetta una parte in tv a Los Angeles e porta con sé il bambino mentre Charlie rimane a New York a dirigere il suo (quello che era stato il loro) spettacolo teatrale, e inizia la stremante battaglia per il divorzio che occuperà gran parte del film che ha per oggetto la custodia del piccolo Henry.

Baumbach si inserisce magistralmente, attraverso richiami più o meno espliciti, in tutta una lunga tradizione cinematografica che indaga il rapporto umano conflittuale, in primis quello di coppia: dal cinema di Bergman richiamato già dal titolo e da numerose scelte di composizione delle inquadrature; al Woody Allen dei drammi familiari e bergmaniani primo fra tutti Interiors (Woody Allen, 1978) con cui il film condivide anche una certa attenzione per lo spazio degli interni; per arrivare infine al cinema di Linklater con la sua trilogia di Before dove i rapporti uomo e donna vengono problematizzati e appaiono in tutta la loro ambiguità costitutiva, a volte forse inconciliabile.

I due protagonisti di Storia di un matrimonio vestono un triplice ruolo: rispettivamente quello di donna, madre e attrice e di uomo, padre e regista; non a caso lo scontro tra i due si gioca su ognuno dei tre livelli. Lo si vede bene nella scena fortemente teatrale ambientata in tribunale, in cui i rispettivi avvocati della coppia avanzano pretese e attribuiscono colpe all’altro andando inevitabilmente ad intaccare ognuno dei tre ruoli individuati. Il dramma familiare è perciò stratificato e se va a coinvolgere in primo luogo la dimensione genitoriale (la custodia del figlio resta comunque il principale motivo di contesa), non per questo la dimensione umana e quella artistica non entrano in gioco.

Baumbach è infatti capace di delineare perfettamente quell’incapacità di distinguere il confine tra uomo e donna, marito e moglie, regista e musa nel momento in cui la coppia sancisce la sua separazione e deve imparare a ricostruire la propria identità, ora irrimediabilmente divisa, separata da quella dell’altro e lo si deve fare  in nuovi  ambiti.

L’allontanamento è la prima condizione necessaria per ricostruire se stessi e ciò ci viene sottolineato dal modo di abitare l’ambiente da parte dei personaggi che appaiono progressivamente sempre più distanti l’uno dall’altro, fisicamente ma anche emozionalmente, con mobili e pareti a sancire anche visivamente la separazione.

In questa pellicola tra il dramma e la commedia, Baumbach torna ancora una volta ad indagare il rapporto di coppia e la fine di una relazione amorosa come già in Il calamaro e la balena del 2005, riuscendo a delineare tutte le sfaccettature, l’umanità e la problematicità del rapporto umano e amoroso congedandoci con un retrogusto dolce-amaro: per un breve fugace momento uno sguardo che cerca di superare le barriere, umane o fisiche,  un atto di gentilezza, ci ricordano che il voler essere amati e amare non sono altro che i desideri più radicati della natura dell’essere umano.

Il film, prodotto e distribuito da Netflix, è stato presentato in concorso alla 76ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, e presenta buone probabilità di ricevere un alto numero di candidature alla 92esima edizione della cerimonia degli Oscar che si terrà in questo mese di febbraio a Los Angeles.

 

 

 

 

 

 

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