LA MASSERIA DI JESCE

 

di Angela Ippolito – docente di lettere; promotrice culturale

 

LA MASSERIA DI JESCE

UN MANIERO DI STORIA, ARTE E LEGGENDE CHE CHIEDE PROTEZIONE

 

Un misterioso podere rinascimentale, immerso tra le terre della Murgia altamurana, che punta ad est e porta con se l’incanto di un’antica stazione atta a rifocillare cavalli e cavalieri. Un po’ come fa, da qualche tempo ormai, l’aedo Donato Laborante, fraterno custode di questo fascinoso pezzo di cielo. La masseria Jesce, antenata dei nostri autogrill, si erge nel punto più strategico della romana via Appia, regalandoci così  la valenza della sua natura ed è molto prossima anche ad un’interessante necropoli. Assume, col tempo, la forma di una “nave” che punta ad Oriente e la facciata ospita ancora le alette su cui poggiavano le garitte, dalle quali le sentinelle prontamente rovesciavano gli oli bollenti, a difesa dagli ospiti indesiderati. Il tetto spiovente protegge l’ingresso dalle intemperie:  è da lì che si scorge il San Michele acefalo, solenne paladino della stazione.  La “Jesce”, oltre ad essere un maniero di storia, arte, sinestesia e leggende, è il commovente guardiano di una munifica cripta sotterranea, dimenticata laggiù e riscoperta solo pochi anni fa proprio grazie a questo prezioso ed appassionato cantastorie. Vi si accede attraverso dei gradoni ricavati nella roccia e, appena varcata la soglia, si assiste attoniti ad un silente frastuono: un tripudio di affreschi canta la vita di Gesù: la Vergine dell’Odigitria indica, con la mano sinistra, suo figlio benedicente, icona di salvezza cristiana. Sull’altare di sinistra, voluto dai De Mari, trova posto S. Francesco da Paola, con gli zoccoli e il remo in mano, simbolo della nota umiltà con cui raccoglie i suoi “pesci”. A destra la sede, ormai vacante, del fonte battesimale ove sino a qualche tempo fa si riceveva il primo sacramento. La facciata in tufo del XVI sec. all’interno, e tutto l’apparato a posteriori aggiunto, presenta un concerto di affreschi rappresentanti, tra gli altri, S. Domenico, S. Francesco d’Assisi e S. Michele Arcangelo al centro, corredati dagli inequivocabili simboli che li identificano. Il soffitto permette ancora un po’, e temo per non molto tempo, di intravedere una volta celeste degnamente stellata.

Ma la “magia” avviene al tramonto e nei giorni in cui l’umidità diviene “amica”: l’epifania! Le cromie dei Santi trasudano luce, i profili dei sacri corpi si rafforzano e arricchiscono, le loro vesti divengono tessuto. A quest’enigmatica manifestazione si aggiunge un gruppo di emulatori di riti sacri, che cantano e danzano incappucciati la sacralità della vita scelta dai monaci per abitarci, accompagnati dalla luna piena che sancisce la pareidolia acustica e visiva e il carisma di questo luogo. Ogni mattone in cotto si calpesti proietta fotografie di vite ricettate ed espulse; ogni angolo di pietra olisce di un passato immaginifico. Donato vive in e di tutto ciò. Ne implora la preservazione. Donato qui ha portato il cinema d’autore, ha promosso eventi artistici e culturali, ha permesso visite guidate ad offerta libera, solo per la mera profusione del sapere e del bello. Ci conduce con tutto l’amore, che può e sa, dentro questa straordinaria esperienza, perché lui non è solo un personaggio rinato grazie alla Jesce, ma è l’apicale unione delle memorie, è la lirica liason tra le arti, è la nutrice dei mestieri del vento,  è l’energia e lo zelo che soffiano sul fuoco di ogni nuova aurora.

Eppure tanta poesia è già stata minata e violata da frettolosi restauri che hanno imbavagliato l’originale armonia dei luoghi. Bisogna dunque sperare che l’attuale gestione del sito sia prorogata per almeno altri cinque anni e che i lavori siano affidati ad alte maestranze locali coinvolte amorevolmente dalla passione che, fin qui, Donato ha riversato in modo incondizionato a queste pietre

 

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