Il 28 febbraio 1953 la sensazionale scoperta della struttura del DNA

di Giusy Armone

 

Il 28 febbraio 1953 la sensazionale scoperta della struttura del DNA

La doppia elica di Watson, Crick. Anzi, di Rosalind Franklin

 

  Sono passate quasi sette decadi dalla scoperta del “segreto della vita” ma la genomica continua ad offrire importanti aree da esplorare all’interno della disciplina biologica.

Il 28 febbraio 1953 il trentacinquenne fisico britannico Francis Crick urlò all’Inghilterra di avercela fatta, di aver decodificato, insieme al biologo statunitense James Watson, appena ventitreenne, la struttura della molecola di DNA. Il 25 aprile dello stesso anno, la rivista Nature pubblicò l’articolo scientifico in cui si presentava il modello di struttura a doppia elica scoperto al Cavendish Laboratory di Cambridge, che fece guadagnare loro il Premio Nobel: due filamenti con uno scheletro costituito da molecole di zucchero unite l’una all’altra da molecole di acido fosforico, avvolte intorno a un asse centrale a formare un’elica (doppia), al cui interno le basi azotate si appaiono con quelle complementari dell’altro filamento per tenerli uniti. La scoperta fu sensazionale perché compose un puzzle di intuizioni formulate in vari ambiti della ricerca, una fra tutte quella di Rosalind Franklin che generò ai raggi X un’immagine che per la prima volta fece ipotizzare una struttura a doppia elica. Ed è proprio a questa giovane brillante biochimica londinese che effettivamente si deve il passaggio dirimente nella scoperta, grazie al suo lavoro basato sulle immagini di diffrazione ai raggi X del DNA, effettuato nel laboratorio del biologo molecolare Maurice Wilkins. Paradossalmente, però, Rosalind Franklin – morta a soli 38 anni nel 1958 – non ricevette alcun riconoscimento, mentre Watson, Crick e Wilkins ottennero dapprima il Premio Lasker conferito nell’agosto del 1960 e, dopo due anni, il Premio Nobel per la Medicina. Comunque sia, la scoperta della struttura chimica del DNA (la molecola del DNA fu scoperta quasi un secolo prima, nel 1969, dal medico svizzero Johann Friedrich Miescher!) ha rappresentato uno spartiacque fondamentale nella scienza, aprendo prospettive fino ad allora inimmaginabili.

Ma se questo rappresenta il passato della genetica, il futuro è sicuramente orientato verso la medicina personalizzata cioè tagliata su misura per un determinato paziente in base alla risposta a determinati farmaci e in funzione di tanti altri elementi. È un futuro dinamico funzionale focalizzato sull’integrazione dei dati che provengono dagli studi scientifici con il percorso “from bench to bedside”, dal bancone di laboratorio al comodino, cioè alla possibilità di fornire nella pratica medica informazioni in grado di migliorare l’efficacia delle terapie, diminuirne gli effetti collaterali e, se non risolvere pienamente la condizione genetica, migliorare il quadro clinico.

Ce l’ha spiegato Luigi Boccuto, professore associato alla “Clemson University” nel South Carolina (U.S.A.) e ricercatore del “Greenwood Genetic Center”,  in occasione di una sua recente visita in Italia, all’Università “Magna Graecia” di Catanzaro – città natale del famoso genetista Renato Dulbecco, premio Nobel nel 1975 – per un appuntamento di divulgazione scientifica promosso dal professore Ludovico Abenavoli: «Dalla scoperta di Watson e Crick le aspettative dei ricercatori sono state in parte rispettate perché c’è un maggiore accesso alla ricerca genetica che riguarda le malattie rare ma anche situazioni di predisposizione, motivo per cui oggigiorno si può parlare non soltanto di determinismo genetico ma di fattori predisponenti di natura genetica. Questa maggiore conoscenza, che è cresciuta negli anni grazie al rilascio dei dati del progetto “Genoma Umano”, ha consentito a varie discipline della scienza e della medicina di comprendere meglio le componenti genetiche in malattie anche più comuni e quindi non considerate originariamente solo di natura genetica. Oggi si sa che ci sono varianti che predispongono a patologie come malattie epatiche, ipertensione e diabete e che possiamo intervenire, se non ancora sui geni, sulla componente ambientale, cercando di fare in modo che elementi di natura ambientale predisponenti o scatenanti non vadano ad interagire col substrato genetico che di per sé è già predisponente la patologia. Siamo nell’era delle “omiche”, genomica, proteomica, metabolomica, e ci rendiamo conto che c’è un tessuto complesso di interazioni che portano al fenotipo, cioè la manifestazione clinica; e quindi attraverso queste riusciamo a scoprire il network di geni, proteine, pattern metabolici, che sottende ad un quadro clinico prima più complesso da interpretare». La ricerca oggi può contare sulla raccolta di maggiori informazioni sulla regolazione epigenetica che si ha a vari stadi, la regolazione sull’espressione dei geni, la regolazione sulla formazione strutturale e sulla funzione delle proteine, la regolazione al livello di interazione di pattern metabolici. «Tutte queste sono interazioni dettate originariamente dalla sequenza e quindi dal genoma – spiega ancora il professore – ma sono al di sopra della sequenza genetica. Il nostro genoma interagisce nell’ambiente e la presenza di alcune varianti può dare vita a dei quadri clinici in base alla copresenza di situazioni ambientali specifiche». Questo dimostra la complessità della questione genetica: «Se da una parte alcune aspettative sono state rispettate, altre sono state disattese perché ci si aspettava – alla  luce di una visione più deterministica del ruolo del genoma umano – di essere più vicini all’identificazione di cause di alcune malattie e quindi alla possibilità di fornire diagnosi genetiche molecolari più precise e dunque raggiungere l’obiettivo finale che è la terapia».

Il futuro della genetica è l’integrazione dei dati genetici e la maggiore comprensione al livello funzionale. Infatti il passaggio successivo è quello di interpretare le varianti che oggi vengono classificate come “VUS”, cioè dal significato incerto, per comprenderne l’impatto sull’espressione, struttura e funzione della proteina codificata da un gene.

 

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