di Maria Antonia Danieli
C’era una volta a… Hollywood
È il nono, attesissimo e acclamatissimo film scritto e diretto da Quentin Tarantino. Uscito nelle sale italiane il 18 settembre, ha dominato sin da subito il botteghino attraendo al cinema un eterogeneo pubblico: i più fedeli cultori del regista ma anche una buona porzione di spettatori curiosi.
La pellicola è stata presentata in concorso alla 72ª edizione del Festival di Cannes, tenutasi dal 14 al 25 maggio, luogo simbolico e importante per il regista che proprio nella stessa competizione, ben 25 anni fa, vinceva la Palma d’oro per Pulp Fiction (1994), film cult che lo ha consacrato come uno dei cineasti più amati e seguiti degli ultimi 20 anni.
Ambientato nella Hollywood della fine degli anni ’60, più precisamente nel febbraio e nell’agosto del 1969, il nono film del regista di Pulp Fiction segue le vicende di una vecchia gloria di Hollywood, l’attore Rick Dalton, interpretato da un magistrale Leonardo Di Caprio che deve fare i conti con la fine dell’era d’oro di Hollywood, motivo per il quale, sempre più spesso, deve interpretare, al cinema o in tv, il ruolo del cattivo, puntualmente sconfitto dal nuovo e scintillante attore protagonista di turno, tanto che sarà costretto a proseguire la sua carriera come star negli spaghetti western italiani. Ad accompagnarlo ovunque, come controfigura ma anche e soprattutto come amico e consulente, è lo stuntman dal passato torbido Cliff Booth, interpretato dal bravissimo Brad Pitt.
Il film di Tarantino ci restituisce perciò in primo luogo un’epoca ben precisa e lo fa innanzitutto attraverso la fotografia dominata dai colori patinati della fine degli anni ’60, alternati al bianco e nero presente invece nelle sequenze metacinematografiche e in quelle dedicate allo schermo televisivo. Sono però, anche e soprattutto i poster cinematografici, le insegne pubblicitarie, il drive-in, le automobili, che ci restituiscono visivamente e culturalmente l’atmosfera del periodo: tutti elementi su cui Tarantino indugia, riservando numerose inquadrature e sequenze in cui non sono più i personaggi a dominare la scena ma è il luogoche li ospita e in cui essi si muovono a diventare il vero protagonista all’occhio della macchina da presa.
Il regista dedica alla Hollywood degli anni ‘60 una vera e propria lettera d’amore per immagini, omaggiando di conseguenza piccolo e grande schermo, a partire dal genere western, molto amato da Tarantino, e infatti già protagonista di altri suoi lavori, primo fra tutti il precedente The Hateful Eight(2015). La favola cinematografica viene raccontata inoltre attraverso le star del periodo: da Bruce Lee a Steve McQueen senza contare Roman Polanski e la moglie Sharon Tate, interpretata da una raggiante Margot Robbie.
Nella memoria collettiva il 1969 simboleggia i tragici omicidi perpetrati dai membri della Manson Family, la comunità guidata da Charles Manson, legata alla cultura hippie del periodo e rappresentata nel film, che coinvolsero la moglie del regista polacco e la sua casa di Cielo Drive.
La storia del cinema incontra quindi ancora una volta la Storia ufficiale ma, con un meccanismo già sperimentato con Bastardi senza gloria (2009), possiamo sostenere, che Tarantino riesca a riscrivere in maniera originale gli eventi. Gli ingredienti dell’ultimo successo tarantiniano sono quindi un cast stellare (degno di nota tra l’altro il cameo di Al Pacino), una regia impeccabile, una buona dose di splatter e ovviamente l’onnipresente cinefilia del cineasta statunitense.