La bellezza della periferia. Un viaggio nel mondo delle periferie italiane.

carlo piano

*di Carlo Piano*

C’è una bellezza segreta nelle periferie italiane, che aspetta di essere scoperta. Una bellezza, non monumentale e poco appariscente, che riesce a spuntare fuori nonostante le periferie siano state spesso costruite senza affetto, quasi con disprezzo. Va cercata e inseguita: è costituita da persone i cui occhi brillano d’energia ma anche da luce, orizzonti, natura, armonia e tanto spazio. Uno spazio diventato prezioso nell’era del distanziamento. Nell’introduzione a Le città invisibili, Italo Calvino scriveva che tutte le metropoli, anche le più infelici, hanno un angolo felice e a quel lembo ci si deve aggrappare per migliorarle. Da qualche parte l’armonia si nasconde anche al Corviale, allo Zen o al Giambellino cantato da Giorgio Gaber nella Ballata del Cerutti. La musica è sempre sbocciata ai margini, dove l’abitato sfrangia nella campagna, vale per le canzoni di allora come per il rap di oggi. Come per la street art, che ha eletto a museo i muraglioni grigi dei quartieri popolari.

periferie

Certo le periferie non godono di una bellezza da cartolina e non sono fotogeniche quanto i centri storici, fiorenti d’arte e zampillanti fascino. Non è però neppure vero che siano sempre brutte e desolate. Può sembrare una contraddizione ma possono essere belle: alcuni scorci, certi cortili dove la gente si incontra, le proporzioni dei caseggiati, gli alberi che si insinuano verdeggianti tra il cemento. Scorrono davanti agli occhi le borgate immortalate da Pierpaolo Pasolini in Accattone e Mamma Roma. Parliamo di una bellezza che non è cosmesi, ma piuttosto afferisce alla kalokagathìa cantata dalla cultura classica greca e a un’idea diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo: il bello non è disgiunto dal concetto di bontà. Mai. Le periferie sono anche la parte più fragile della città dove vive la stragrande maggioranza della popolazione urbana. Sono ricche d’umanità. Qui si concentra l’energia e qui abitano i giovani, esondanti di speranze e desideri. Sono una fabbrica di desideri. Sono anche la città del futuro e quella che lasceremo in eredità ai nostri figli.

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Dobbiamo però smettere di associare a esse solo aggettivi denigratori: remote, violente, degradate, buie… È questa la grande scommessa urbana dei prossimi decenni: le periferie diventeranno o no pezzi di città? Diventeranno o no urbane, nel senso anche di civili? Se non ci riusciamo saranno guai, come dimostra l’allarme sociale che in questi anni abbiamo visto deflagrare nelle banlieues parigine e non solo. Bisogna ritirare fuori questa bellezza periferica e scolorita, prendersi cura della sua manutenzione, farla oggetto di rammendi che la rendano fruibile e vivibile. Senza demolire, che è sempre un gesto d’impotenza e l’ultima ratio da usare in casi limite, piuttosto il verbo è trasformare. Per questo occorrono ago e filo e non la ruspa. La prima cosa da fare è non costruire nuove periferie, ne abbiamo già a sufficienza. Bisogna che diventino città ma senza allargarsi a macchia d’olio, si tratta piuttosto di cucirle e fertilizzarle con strutture pubbliche. Oggi la crescita della città anziché esplosiva deve essere implosiva, questo almeno insegnano gli urbanisti e gli architetti più illuminati: ci sono da completare le ex aree industriali, militari o ferroviarie, c’è un sacco di spazio disponibile.

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La città sana è quella multifunzionale: in cui si dorme, si lavora, si studia, ci si diverte, si va a fare la spesa. Se si costruiscono nuovi ospedali come l’emergenza sanitaria ha imposto, meglio farli in periferia, e così per le sale da concerto, i teatri, i musei o le università. L’idea è quella di fecondare con funzioni un deserto affettivo, dove spesso non c’ è nulla da fare, nulla in cui sperare. E da qui nasce la tragedia dei problemi legati all’alienazione e quindi alla criminalità. Servono luoghi per la gente, punti di aggregazione anche se in questo periodo sembra di pronunciare una brutta parola, dove si condividono i valori, dove si celebra un rito che si chiama tolleranza. C’è anche una bellezza umana nelle nostre periferie che la pandemia ha messo in risalto. Si chiama solidarietà e viene praticata da tante associazioni e parrocchie presenti sul territorio che, troppo spesso, si sono sostituite allo Stato nell’aiutare le famiglie in difficoltà. Nel fornire i computer per la didattica a distanza ai ragazzi e la connessione internet, per portare la spesa agli anziani in quarantena, per accompagnare i malati in ospedale, per coltivare gli orti collettivi, o insegnare l’italiano agli stranieri e tante altre cose.

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Mentre si discute di cinema svuotati e gli intellettuali si interrogano sul destino dei luoghi di cultura, in periferia avevano già pensato la scorsa estate a come risolvere l’impasse. Nel quartiere milanese del Giambellino hanno proiettato i film nei cortili usando come schermo un grande lenzuolo bianco. Sono una splendida risorsa i cortili, ed è una splendida frase ci vediamo giù in cortile. Gli inquilini scendono portandosi dietro la sedia da casa, e ci sono popcorn per tutti. Chi può permetterselo lascia un’offerta, gli altri lo faranno la prossima volta. Come difendere e migliorare questo mondo ricco di chiaroscuri che è la periferia? Al contrario dei centri storici, già protetti e salvaguardati, essa rappresenta la bellezza che ancora non c’è. È il destino stesso delle città. C’è bisogno di una gigantesca opera di rammendo e ci vogliono nuove idee. La sfida coinvolge architetti, urbanisti, sociologi, insegnanti, artisti, psicologi, scrittori, cineasti… e i politici che non possono ignorare come la parola stessa politica derivi da polis, dalla città. Gli amministratori ateniesi quando accettavano la carica, dovevano recitare un giuramento, che è interessante ricordare oggi: prometto di restituirvi Atene migliore di come me l’avete consegnata. Quindi più bella, ma soprattutto più buona.

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