Il figlio del mare – recensione di Daniela Rabia

daniela rabia

*di Daniela Rabia*

Il figlio del mare, l’ultimo romanzo di Eliana Iorfida, Pellegrini editore, è un viaggio nel viaggio. Meta la terra calabra. In essa la ricerca della propria storia, del proprio passato, di una verità a lungo taciuta e sepolta a colpi di pregiudizio ma riaffiorata sotto i sussurri del pettegolezzo e levigata dai flutti del mare.

A mettersi in cammino è Jo, il protagonista, “il bambino di un’infanzia interrotta”, nato da Bianca e dallo Jonio. L’autrice intreccia i fili di una trama fitta e opaca e incrocia i percorsi di due donne, quello di una madre violata, Bianca, e quello di una madre mancata, Wilma. Il resto è un caleidoscopio di profumi, sensazioni, sapori, colori, luci, suoni e immagini di una terra che sembra sperduta nel tempo e nello spazio. Il suono di una cavigliera, un amuleto, un portafortuna, guida il lettore e ricuce quei fili con la tenerezza del tintinnio musicale dei campanelli d’argento. Scorrono le parole tra le righe, si fermano, palpitano come l’anima di chi legge; riprendono a scorrere tra l’asfalto e il cemento che imbarbarisce i paesaggi e ferisce lo sguardo, solcano le onde marine su un peschereccio per arrestarsi alle soglie del buio della morte.

Le lacrime salate si confondono con le acque salmastre, scavano solchi profondi e piccole insenature, cedono il posto alla nuova vita che emerge da subito sulle tracce di “un’affinità col vento e le correnti”. “A volte per andare avanti bisogna dare un ultimo sguardo indietro” consiglia la scrittrice ai lettori, ai suoi personaggi, a se stessa, alla sua terra di Calabria. Il messaggio diventa corale. Il romanzo fa spazio alla vita da cui prende le mosse per rientrare nella magia del pensato, del costruito, dell’immaginato, del dipinto.

La scrittura di Eliana Iorfida spazia tra la poesia e la pittura, tra il reale e l’irreale, tra la dimensione presente e quella vagheggiata del sogno, tra il terreno e il divino con quella Madonna in mare che veglia da non molto lontano su una terra tanto bella quanto amara e maliarda che ha un trucco “mente dicendo il vero e svela la verità nella farsa”. Il romanzo poggia sull’architrave della tragedia greca, si legge tutto d’un fiato, richiede poi una lunga meditazione. Nessuna espressione è lasciata al caso, l’ordine e la simmetria sono le bisettrici del testo, il bianco e nero alternato della scrittura che incide il foglio è però travolto dalle onde del mare e più delle altre da quella che reca con sé la verità indagata.

“Sono convinto che ciascuno di noi abbia in sé un potenziale infinito, una tavolozza sulla quale è dato mescolare innumerevoli combinazioni di colore: la tavolozza è il caso, le sfumature che riusciamo a trarne, l’arbitrio. L’opera finita è frutto di entrambi”. È questo il messaggio potente che ci consegna l’autrice nel corpo del racconto invitandoci a mescolare e a dosare bene gli elementi perché da questa fusione nasce la vita che supera la dimensione del finito e si proietta  verso l’infinito.

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