Il vecchio e il mare, l’eterna lotta con se stessi

– di Eliana Iorfida* –

Esattamente il 4 maggio di 65 anni fa, l’opera più famosa di Ernest Hemingway vinceva la più prestigiosa onorificenza letteraria, il Premio Pulitzer, e l’anno successivo il Nobel

 

Il ragazzo non può accompagnarlo al largo, altrimenti la scena alla quale avremmo assistito, nel porticciolo tropicale in cui ci troviamo, sarebbe stata simile a un verso gucciniano che vede un vecchio e un bambino andare insieme, per mano, incontro… all’aurora. Il vecchio ha come unica compagnia la sua vecchiaia, questo è il punto.

“Tutto in lui era vecchio tranne gli occhi, che avevano lo stesso colore del mare ed erano allegri e indomiti”.

Decidiamo di seguirlo da lontano, ché nessuno può aiutarlo in questa avventura. Oggi è il giorno, domani potrebbe non arrivare affatto. Lo sa bene Ernest Hemingway nel momento in cui sceglie il vecchio e non il giovane per compiere l’impresa in mare aperto: la fatale ricerca della chimera, il guizzo vitale prima dell’eterno, l’ultima opera pubblicata in vita. Insomma, il gigantesco marlin delle profondità al cui amo abboccheranno il Premio Pulitzer del 4 maggio 1953 e il Nobel dell’anno successivo.

Salpiamo sulla scia del marinaio, guadagniamo con lui il mare aperto e lo osserviamo ingaggiare la sua personale battaglia con la preda della vita, che inevitabilmente diventa anche la nostra. Sì, siamo sulla stessa barca, caro Santiago! Ciascuno a tendere la propria esca sul fondo per tirar su ciò che placherà la fame di vita. Non una lotta “contro” la natura, dunque, ma “con” la natura.

Fu un’aberrazione della critica letteraria del tempo accostare Santiago al capitano Achab e il marlin a Moby Dick: ma noi preferiamo la lucida lettura che del capolavoro americano fece il nostro Cesare Pavese

Questo è forse il senso, uno dei tanti, che si “pescano” rileggendo a distanza di tempo Il vecchio e il mare, uno scritto troppo breve per essere romanzo e troppo lungo per essere racconto. Di sicuro troppo intenso per non lasciare nel lettore una traccia indelebile, simile a quelle lasciate dalla lenza sulle mani callose del pescatore, dopo giorni e notti di agonia, quest’ultima da intendersi nell’accezione greca di agóne, ovvero competizione solenne.

Sì, perché a questo assistiamo affiancando con discrezione la barca del vecchio. Santiago non è Achab, così come il marlin non è la balena bianca. Fu un’aberrazione della critica letteraria del tempo accostarli al punto da apostrofare l’opera “il Moby Dick di Hemingway”. Basta ricorrere allo sguardo lucido di Cesare Pavese per accorgersi della differenza: se il rapporto che lega il capitano alla sua balena è una vera e propria monomania, come ebbe a definirla lo scrittore piemontese, quello che unisce il vecchio al pescespada è un disperato senso di compassione – da intendersi ancora una volta in senso classico – e rispetto per il reciproco sforzo di stare al mondo, strappando il tempo della vita a quello della morte.

Lo sentiamo con le nostre orecchie dichiarare a voce alta, per fare compagnia alla sua solitudine, il fraterno amore che lo lega alla creatura morente. La medesima tenerezza che lo induce a dialogare con gli uccelli che aleggiano attorno alla barca o vi si posano per un breve ristoro.

“Riposati bene uccellino […] Poi vai e rischia quel che devi rischiare come qualsiasi uomo o uccello o pesce”.

Un amore francescano verrebbe da dire, se non fosse pregno della necessità del sacrificio che toglie la vita per darne altra, altrove.

 

“Ricordo una volta che era rimasta presa all’amo la femmina di una coppia di marlin che procedevano insieme. Il maschio lascia sempre nutrire prima la femmina, e la femmina quando abboccò si gettò in una lotta folle, disperata di panico, che presto la ridusse senza forze, e tutto il tempo il maschio le era rimasto accanto [..] È stata la cosa più triste che abbia mai visto, pensò il vecchio. Le abbiamo chiesto scusa e l’abbiamo squartata senza indugi”.

Quello che unisce il vecchio al pescespada è un disperato senso di compassione e rispetto per il reciproco sforzo di stare al mondo, strappando il tempo della vita a quello della morte

Parole del com-patire tra esseri viventi, inequivocabili come la devozione del vecchio per quel mare che chiama la mar, al femminile, come gli spagnoli e i francesi che vi si rivolgono come a una donna. Niente di più lontano dallo sprezzante ardore di Achab nei confronti del raziocinio della natura.

Il nostro vecchio è sfinito, la sua preda è smembrata dai pescecani che ne hanno fiutato la scia di sangue. Lo osserviamo inseguire le luci della riva verso il ritorno, spossati anche noi, madidi di sudore e lacrime, con la pelle cotta dal sole e dalla salsedine. Ci siamo abituati. Abbiamo lottato strenuamente al suo fianco e a fianco del marlin, parteggiando ora per l’uno ora per l’altro, senza risolverci.

Del resto, non c’è soluzione, ma continuità. L’uomo non è altro dalla natura e la natura non è altro da ciò che l’uomo chiama Dio. Questo abbiamo appreso in una battuta di pesca mai tanto sofferta e solinga, lotta tra un uomo al tramonto della propria vita e se stesso.

“Pesce […] resterò con te fino alla morte. Anche lui resterà con me, pensò il vecchio, e aspettò che sorgesse la luce”.

 

* Scrittrice e archeologa orientalista. Par- tecipa a missioni di scavo internazionali (Siria, Egitto e Israele), trasformando i diari di viaggio nel fortunato romanzo d’esordio Sette paia di scarpe (Rai Eri, 2014) vincitore del Premio Letterario Nazionale Rai “La Gia- ra”. Altre sue opere, Antar (Vertigo Edizioni, 2018) e La scatola dei ricordi (Formebrevi Edizioni, 2018). Il figlio del mare (Pellegrini Editore, 2020) è il suo ultimo romanzo.

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